schiavitù moderne al giorno d'oggi - popolazioni cinesi vittime dell'iperconsumismo
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Le schiavitù moderne producono vestiti. I colpevoli? Noi. - 4 min read

Migliaia di individui obbligati a lavorare contro la loro volontà perché gli stati impongono così. Di che sto parlando? Delle schiavitù moderne.

Ormai non si tratta più di gestire campi di coltivazione ma di far parte dell’enorme processo produttivo che DEVE sostenere l’iperconsumismo di cui siamo complici. A noi piace comprare, certo che ci piace! Il momento in cui scegliamo cosa mettere o togliere dal “carrello” è l’unico in grado, ad oggi, di provocarci quel brivido di adrenalina ormai perso tra la noia di uno scroll e un altro.

Nell’epoca del tutto e subito e, soprattutto, del mare magnum del prodotto disponibile, poter scegliere è diventata la normalità, mentre saper scegliere è diventata un’arte. Che sia Zara, H&M, Amazon, Shein o altri marchi di abbigliamento disponibili sul mercato, purtroppo non se ne salva nessuno. E noi? Noi, presi dalla smania dell’acquisto compulsivo, non facciamo che contribuire a questo processo di lavoro forzato, alimentando il nuovo concetto di schiavitù moderna.

Ma in che senso si parla di schiavismo oggi e come possiamo essere noi i colpevoli? Insomma, che succede?

Il Fast Fashion e le nuove schiavitù

Nuove indagini dal mondo della moda, stavolta è il turno di una figura particolare: i nuovi schiavi. Anche se fa strano leggere un appellativo del genere, purtroppo è realtà. In base a quanto riportato dalle ultime notizie, è emerso un rapporto che metterebbe in luce un coinvolgimento dell’Unione Europea nell’importazione di abbigliamento cinese prodotto in fabbriche da lavoratori uiguri e di altre minoranze etniche e religiose.

Il nome abbreviato del report è “©Tailoring Responsibility” e smaschera diversi marchi che sarebbero coinvolti in questo sistema commerciale malsano e, soprattutto, occulto.

Leggi qui l’intero report: ©Tailoring Responsibility: Tracing Apparel Supply Chains from the Uyghur Region to Europe

Il rapporto identifica 39 marchi di abbigliamento ad alto rischio di approvvigionamento di materiali, come cotone e PVC, prodotti da lavoratori uiguri costretti a partecipare a programmi di lavoro forzato in Cina. Tra questi marchi figurano proprio H&M e Zara.

Politiche governative complici dei programmi di lavoro forzato

A quanto pare, sarebbero quattro le imprese cinesi di abbigliamento indagate per i loro significativi legami con la regione uigura dello Xinjiang (che rappresenta oltre l’80% del cotone cinese). L’imputabilità nascerebbe proprio per il loro coinvolgimento nel trasferimento di manodopera forzata dallo Xinjiang e nel rifornimento di approvvigionamento, filiali e produzione a marchi occidentali tra cui Zara e Primark.

migliaia di container da inviare in Europa e nei paesi occidentali
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La schiavitù oggi è da intendere proprio come quella regolata dalla Repubblica Popolare Cinese. Questa, infatti, dal 2017 impone un sistema di lavoro forzato agli uiguri e ad altre minoranze etniche (anche musulmane), facendo passare questo lavoro forzato come rimedio alla povertà del paese.

Ricordiamoci però che, nonostante le “buone intenzioni”, questi trasferimenti comportano la separazione familiare e l’espropriazione delle risorse vitali (come la propria terra) delle comunità uigure, persone qualunque che non hanno scelta nei confronti del bene comune della società. Un punto di vista piuttosto negativo, direi, che non fa altro che celare uno sfruttamento disumano.

Donne e uomini uiguri costretti a condizioni di vita pessime e orari lavorativi disumani. Questa è la schiavitù moderna
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Lo sfruttamento sul lavoro è responsabilità dell’Unione Europea

Oltre alle dinamiche cinesi interne, tracciando le catene di approvvigionamento dell’abbigliamento dall’Xinjiang all’Unione Europea, il rapporto “Responsabilità sartoriale” ha sollevato dubbi anche sulla politica dell’UE. Il report accuserebbe l’Europa di non protegge i consumatori dall’acquisto di prodotti realizzati con il lavoro forzato.

È proprio questo coinvolgimento tra l’UE e le aziende di abbigliamento cinesi in programmi di trasferimento di manodopera che suscita non poche preoccupazioni sull’etica e sulla sostenibilità.

La schiavitù moderna vittima delle strategie di offuscamento

Se esiste un tipo di schiavitù nel mondo, dunque, questo è quello che si avvicina di più. Essere schiavi oggi, infatti, significa essere delocalizzati per volontà superiori e dedicare il proprio tempo e la propria salute a meccanismi di iperproduzione per soddisfare la richiesta del Fast Fashion.

I vestiti che indossiamo portano il sudore di chi si è sacrificato per soddisfare le nostre manie consumistiche.

Container su una nave diretta alla distribuzione globale del settore tessile
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Orari oltre i limiti normativi e condizioni lavorative altro che dignitose. Che poi, nell’effettivo, c’è ben poco di normale e legale in tutto questo, anzi. Le aziende cinesi coinvolte cercano addirittura di offuscare il loro coinvolgimento nei trasferimenti di manodopera imposti dallo stato.

Ad esempio, il Beijing Guanghua Textile Group, collegato a marchi occidentali come Zara, cerca di nascondere il proprio coinvolgimento (in questo sistema di schiavitù moderne) utilizzando varie tattiche, tra cui cambiare i nomi delle aziende.

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