La pacchia è (quasi) finita amiche mie, almeno per quanto riguarda alcuni paesi d’Oltremanica e d’oltreoceano: addio ai resi gratuiti! Come già visto qualche puntata fa, gli acquisti compulsivi sono una tendenza in crescita, la stessa che vede affermarsi la mania del Fast Fashion. Mai come adesso, servono delle misure un po’ più drastiche.
Per contrastare ciò, diversi grandi marchi come Zara, Macy’s, Abercrombie & Fitch, J. Crew e H&M, stanno invertendo il senso di marcia (per quanto possono), limitando così l’iperconsumismo e, di conseguenza, l’impatto ambientale.
Secondo il New York Post pare, infatti, che il primo tipo di rivoluzione parta dal Regno Unito. 8 e-commerce su 10 hanno deciso di impostare una commissione per la restituzione degli articoli. La prima è Zara la quale, già da (circa) un anno addebita 1,95 sterline sul rimborso per i clienti che intendono restituire un capo acquistato online attraverso punti di consegna gestiti da terze parti (come gli uffici postali).
Se il reso, invece, viene effettuato fisicamente negli store, per il momento Zara non applica nessuna commissione.
Restituzioni a pagamento sono previste anche dalla giapponese Uniqlo (circoscritto al territorio nipponico) e dall’inglese Asos.
L’era del reso a pagamento è iniziata anche negli Usa. Come dicevo, anche Macy’s, Abercrombie & Fitch, J. Crew ed H&M hanno imposto commissioni fino a 7 $ per la restituzione degli articoli tramite resi postali. Mentre Yoox prevede che reso sia completamente a spese dell’acquirente.
La “bracketing” mania che ci sta sfuggendo di mano…
Sfido chiunque a non aver mai, almeno una volta, acquistato diverse soluzioni per taglia e/o colore di uno stesso capo solo per essere sicuri di fare la scelta giusta. Ebbene, questo comportamento a dir poco consumistico ha addirittura guadagnato un nome tutto suo che in inglese si tradurrebbe con bracketing.
Il “Bracketing” è la pratica con la quale i clienti riempiono i carrelli dei loro e-commerce preferiti con più taglie e colori degli stessi capi, li provano a casa, prendono una decisione e rispediscono il superfluo. Più che abitudine io la definirei una vera e propria mania!
Il problema è che la nostra indecisione ha una responsabilità ancor prima di avere un nome. Una responsabilità verso le aziende che devono sostenere ulteriori costi ma, soprattutto, per l’ambiente. Vediamo insieme che si intende con impatto finanziario ed ecologico della bracketing mania.
L’impatto finanziario dei resi gratuiti
Secondo uno studio effettuato dalla BFC (British Fashion Council) solo nel Regno Unito e solo nell’anno 2022, i resi di abbigliamento sarebbero costati all’industria della moda 7 miliardi di sterline nel 2022.
Quello che forse si sottovaluta è che la gestione dei resi rappresenta una sfida logistica e finanziaria per i rivenditori.
Il processo di restituzione e ripristino del capo comporta costi significativi: sia perché gli articoli necessitano di pulizia e riparazione, sia perché incidono sulla gestione corretta dell’inventario e degli spazi.
Per non parlare del fatto che, spesso, la rivendita di articoli restituiti implica sconti sostanziali, con una riduzione media del 40% rispetto al prezzo originale.
Uno studio simile è stato effettuato anche negli USA. Secondo la National Retail Federation, nel 2022, gli acquirenti negli Stati Uniti hanno restituito il 17% degli acquisti, totalizzando 816 miliardi di dollari.
L’azienda di servizi Inmar Intelligence afferma che i rivenditori spendono mediamente 27 dollari per gestire il reso di un articolo online del valore di 100 dollari.
Inoltre, il Wall Street Journal rivela che le imprese perdono circa il 50% del margine di profitto a causa dei resi.
Perché il free return è un danno per l’ambiente?
I costi dei resi non si limitano ai bilanci, ma si estendono anche all’ambiente. Nel 2022, i resi hanno generato circa 750.000 tonnellate di CO2 solo nel Regno Unito, contribuendo significativamente allo spreco di abbigliamento.
Gli articoli che non possono essere rivenduti o non sono riciclabili spesso finiscono bruciati o in discarica. A tal proposito, in realtà, abbiamo già abbondantemente affrontato il discorso scoprendo una realtà che va oltre l’immaginazione.
Leggi: Il fashion-horror dell’inquinamento tessile: non aprite quell’armadio…(Parte 3)
Grazie al viaggio inchiesta effettuato dalla docuserie “Junk: armadi pieni”, abbiamo avuto il privilegio e l’opportunità di aprire gli occhi e di renderci conto di quanto pesi ogni nostra singola scelta nel campo della moda. Noi, succubi e vittime del Fast Fashion, in realtà non siamo altro che fruitori che non vogliono sapere perché non vogliono accettare la realtà.
Intere zone e intere popolazioni costrette a scendere a patti con potenze economiche più grandi e con le loro imposizioni. Le stesse popolazioni che vivono in discariche a cielo aperto e arrivano a guadagnare a fine giornata qualche centesimo del loro stipendio.
Sono queste le conseguenze sociali del Fast Fashion che ci piace tanto, senza considerare ovviamente, l’impatto ambientale. In base a quanto affermato da Quantis, società di consulenza ambientale, una normale sessione di shopping online è responsabile del 7% delle emissioni di gas serra prodotte in tutte le sue fasi di acquisto (produzione, packaging, spedizione e consegna).
Considerando che il tasso di reso medio si attesta intorno al 14%, la fase di “reverse logistics”1 causa il 3% delle emissioni di CO2. Nei prossimi anni pare addirittura che il tasso di reso medio possa arrivare a sfiorare il 50% con una consequenziale crescita dell’impatto ecologico per l’aumento delle emissioni di CO2 al 9% per ogni singolo ordine.
Va da sé che, affrontare la questione dei resi non è solo una priorità finanziaria per i rivenditori, ma anche un imperativo ambientale e sociale.
Cosa ne pensa l’Italia dei resi gratuiti?
Torniamo in Italia. Come intende agire il nostro paese nei confronti di questa bracketing mania? Per ora esercitare i resi gratuiti sono ancora un diritto.
In Europa, infatti, vige inderogabile la norma secondo la quale i consumatori sono tutelati da qualsiasi politica del reso a pagamento (considerato illegittimo). Almeno per ora.
Fortunatamente per l’ambiente ma sfortunatamente per le nostre tasche, qualcosa serpeggia. Già ora, Zara riserva il reso gratuito solo a chi porta il capo in store, mentre il ritiro a domicilio costa 4,95 euro oltre il rimborso.
Restando in Italia, il reso di H&M ha un costo di 2,99 euro per tutti ma è gratis solo per i membri.
- “Reverse Logistics”,conosciuta anche come “Logistica inversa” o “Logistica di ritorno”, si riferisce all’insieme di pratiche e processi destinati a gestire i resi gratuiti e il rientro dei prodotti dai punti vendita al produttore per eseguirne la riparazione, il riciclaggio o lo smaltimento al minor costo possibile. ↩︎